Friday, 3 September 2010

Orphans

I have given you the blood and the truth
from the wounds they laid onto me
And whatever they left, well, I kept it for my own heart

But the clothes I wore
Just don't fit my soul anymore

And we were orphans before
We were ever the sons of regret

Mi son sentito un po' colpevole a dirglielo, quasi me ne stessi andando furtivo come un ladro. Quella è stata la parte dura, ma loro sono stati grandiosi e mi han fatto capire che gli basta la mia amicizia, e che io non scompaia. Sanno che il mio gialloblù è di un'altra tonalità rispetto al loro, e hanno rispettato la mia scelta. Il soldato Billie torna a casa, torna a combattere sulla terra arida e dura dell'Uslenghi, torna a sedersi sul suo sgabello in Sede, torna a giocare nel posto dove più si è sentito il cuore in gola con una palla da rugby in mano. Non è stata una decisione facile: i ragazzi di Seregno mi mancheranno, e mi son rimasti anche loro nel cuore. Però un anno di assenza e qualche mese di stop, tra spalla insaccata e un po' di pigrizia, mi hanno aiutato a capire quale sia la mia squadra.

E allora il venti agosto, tra zanzare e caldo, alla rotonda del Borak il volante non ha girato a sinistra, ma ha preso la via a destra, per andare verso strade già calcate centinaia e centinaia di volte. Con un disco dei Gaslight Anthem a manetta, con il cuore che saltava nel petto, con l'emozione di uno scolaretto al primo giorno di scuola. La strada è cambiata da quando l'avevo percorsa l'ultima volta con il borsone nel bagagliaio: una deviazione, uno spartitraffico, ma non è quello l'essenziale. L'essenziale è quell'ingresso, il ricordare le mille emozioni, discordanti, provate nelle mille volte in cui l'ho varcato. Ricordarsi i mille ritrovi di inizio anno, la loro ritualità. Ricordarsi com'era stare in quello spogliatoio, anche se ora è stato ripiastrellato e ristrutturato per l'ennesima volta. Ricordarsi gli sguardi di quella gente che ti ha visto crescere, che ti ha tenuto la mano mentre tu cercavi di abbattere i tuoi limiti, che ti ha incoraggiato o spronato quando qualche placcaggio ti aveva lasciato a terra.

Sguardi che hanno anche giudicato, quando tu hai fatto scelte difficili da digerire. E d'altronde, non poteva essere diversamente, dato che anche tu in qualche modo stavi giudicando loro, senza renderti conto che, nonostante le difficoltà, gli screzi, le polemiche e quello che non riuscivi a mandare giù, l'anima era sempre quella. Si tratta, alla fin fine, di scelte. Alcune giuste, alcune sbagliate. Strappi da ricucire, e magari rimarrà la cicatrice. Ma l'importante è che i lembi siano riavvicinati, poi le ferite guariscono, se val la pena curarle. Sguardi, anche, che non avevano stortato le ciglia a quelle scelte, ma che ti avevano augurato le migliori fortune. E che ora brillano nel vederti tornato, nel poter godere nuovamente della tua compagnia in spogliatoio. I primi a farti sentire a casa. Sguardi nuovi, di gente che ti ha visto solo di sfuggita, che è arrivata mentre eri via. Nuovi compagni, nuovi fratelli. Che famiglie allargate che si ritrova un rugbista...

Uno sguardo, in particolare, nuovo. Brunetto, l'allenatore arrivato mentre tu facevi bagagli e nulla osta, con cui hai fatto pochi allenamenti, a cui hai comunicato le tue intenzioni. L'ho sempre rispettato per come mi aveva risposto. "Apprezzo che tu sia venuto a dirmelo, perchè questo fa di te un uomo: perchè un uomo ha il coraggio delle sue parole e dei suoi gesti". Non aveva voluto convincermi nè a restare nè ad andarmene: "Devi fare quello che credi ti renderà più felice, e se non senti più di essere felice qua, è giusto che provi ad andare da un'altra parte". Aveva fatto, a uno dei pochi allenamenti a cui avevo partecipato, un discorso sulle serrature che abbiamo dentro, quelle mentali: cose che siamo in grado di fare, ma che consideriamo impossibili e allora teniamo chiuse. Diceva di voler cercare di aiutarci a scassinarle, queste serrature. E' quel che ho sempre pensato che il rugby mi stesse aiutando a fare. Eppure, nella vita e nel rugby, in quest'anno sentivo i lucchetti chiudersi in maniera asfittica attorno a me. Penso sia il momento di invertire la tendenza. E mi son sentito veramente tornato a casa quando, sorridendo, mi ha detto: "Bentornato, Billie". Bentornato a casa.

***

Mentre, in preda all'emozione esaltata e timorosa, percorrevo le ultime centinaia di metri che mi separavano dal campo, stavo ascoltando l'ultimo disco dei Gaslight Anthem. In particolare la canzone era Orphans, che penso si addica allo stato d'animo di chi si è sentito "lontano da casa", nonostante fosse stato accolto a braccia aperte in un bell'ambiente. We were orphans before we were even the sons of regret...



Friday, 9 July 2010

Doo-bee-dee-doob bee-dee-doo-bee-dee-doob

La amo.

La amo perchè sa vedere in me quello che a volte io non riesco più a vedere. Perchè sa farmi capire che sono ancora io, che posso tirare fuori molto di più e pretendere molto di più da me stesso. Perchè mi sprona a buttarmi quando io zampetto pauroso e timoroso e vorrei solo ributtarmi in quel vicolo caldo e sicuro.

La amo perchè sa quanto voglio crescere. E quanta paura ho di farlo. La amo perchè condivide con me la stessa voglia e la stessa paura. Perchè c'è in sostegno, a pungolarmi. Perchè pretende da me che io riesca a esprimere il meglio di me nella mia vita.

La amo perchè è attenta alle piccole cose, perchè per lei amarmi è come apparecchiare una tavola o preparare un pranzetto. E non lo fa mai con sciatteria. Magari ogni tanto con imbranataggine brucia qualcosa, ma mette amore nel posizionare ogni forchetta, nel farti trovare il succo che ti piace tanto, nel sorriderti prima di inforchettare il primo boccone. Come quando al bar ti servono il caffè con il cioccolatino di fianco al cucchiaino.

La amo perchè è piccola e fragile, ma nasconde dentro di sè un energia immensa, e perchè è testarda e cocciuta, nonostante tutto il vento che soffia contro. Magari le delusioni la fanno poi stare male, magari va in agitazione per poco, magari a volte la stanchezza, come capita tutti, la assale. Eppure è pronta a fare un salto che io vorrei trovare la forza di fare, sento che mi tiene la manina, ma che guarda decisa verso il suo obbiettivo. La amo perchè quando è a testa alta fa tener la testa alta anche a me.

***

Era qualche giorno che avevo nella testa la versione dei Dexy's Midnight Runner (Come on, Eileen, too-loo-rye-ay...). Però vista l'importanza di Belfast nel dare una svolta alla mia vita, visto che a Belfast non lo sapevo che there was a pair of brown eyes that was waiting for me, ma che c'era...beh...la canzone è Jackie Wilson Said (I'm In Heaven When You Smile) nell'originale del Belfast Boy Van Morrison. Doo-bee-dee-doob bee-dee doo-bee-dee-doob...


Saturday, 22 May 2010

Run, Fatboy, Run!


There comes a point in every race, it could be the fifth mile, could be the twenty-fifth, but eventually you're gonna hit what runners like to call "the wall", and when you do, you won't be able to breathe, or to think, or even move. All you're going to want to do is give up.

Lui è un tipo normale. Un po' testa di cazzo, perchè i film britannici ovviamente devono farci affezionare a delle amabili teste di cazzo. E poi perchè Simon Pegg non sarebbe credibile altrimenti. A proposito, io adoro Simon Pegg, andatevi a vedere Hot Fuzz, Shaun of the Dead, Big Nothing e per Dio, scaricatevi entrambe le serie di Spaced, sono geniali (o almeno la puntata 1x04 intitolato Battles per vedere la migliore parodia di un film di guerra che si sia mai vista)! E già che stiamo parlando filmicamente, David Schwimmer, che compare anche in Big Nothing (e mi fermo qui, perchè se comincio con i collegamenti tra l'attore che è apparso qui o là, non la finiamo. Però c'è David Walliams di Little Britain che fa una comparsa, ed è comparso anche in una puntata di Spaced, per dirne una. Mentre Dylan Moran, che fa l'amicone del protagonista, era anche in Shaun of the Dead. E David Schwimmer ha diretto alcuni episodi della serie Little Britain USA. E se continuiamo con i fili arriviamo a I Love Radio Rock, The IT Crowd, Father Ted, e mi fermo qui sul serio), dicevo, David Schimmer - noto ai più come Ross di Friends, è il regista, e ha un cameo verso la fine.

Dicevamo di Dennis Doyle, il tipo normale, testa di cazzo, pieno di difetti. Lascia la promessa moglie incinta sull'altare, e abbandona ogni cosa che abbia mai cominciato ("Come on, you've never finished anything in your entire life, Dennis" - "Aw, no, you...that's not..." - "You can't even finish a sentence!" - "Oh, don't...don't...you're just being, you know...what's the word?"). Poi, punto nell'orgoglio e desideroso di riguadagnare il rispetto e l'amore di lei e del figlio, si mette a correre per partecipare a una maratona benefica (indossando la maglietta della National Erectile Dysfunction Awareness). Per dimostrare a se stesso di non essere un perdente, un codardo, un rinunciatario. A quitter, come si dice in inglese.

Mi ci sono trovato. Ci sono tante cose in cui devo riguadagnare il rispetto di me stesso, la voglia di crederci, la spinta ad essere all'altezza delle situazioni. E poi oggi, vedendo la Como Nuoto, la squadra di pallanuoto che seguo per lavoro, pareggiare a cinque secondi dalla fine, dimostrando carattere e nervi, ho ragionato su quello che a me piace dello sport. Perchè le mie partite preferite sono quelle giocate punto a punto, con magari poche azioni strabilianti, ma tanta tensione? Con magari poche mete, ma tanta pressione? Perchè lo sport è battere, prima di tutto, se stessi. E qui non si può dare spettacolo, è e sempre sarà guerra di trincea, un finale ai rigori, una guerra di nervi tra Toldo e gli olandesi, un vantaggio di due punti mantenuto fino alla fine con i denti, un pareggio fortemente voluto e raggiunto con il tempo che scivola via, una tripla di Terrence Rencher a due secondi dalla fine, una meta liberatoria dopo tanti centimetri sudati e dopo esser stati respinti tante volte. Forza di nervi, forza di carattere, forza su se stessi. Il catalogo del pugile diceva: La costanza nella preparazione atletica ti garantisce la vittoria più importante, quella su te stesso, ma penso valga anche oltre alla boxe. Costanza: ecco quello che mi è mancato. E preparazione. Quello che ti fa sentire confidente, adeguato, all'altezza della situazione. D'altronde uno dei motti che preferisco è Fail to prepare, prepare to fail.

Sono stati giorni piuttosto snervanti, come sa chi ha saputo starmi vicino e ha sopportato i miei sbalzi di umore. Forse quello che mi snerva tanto è che...essere una bella persona fino a un po' di tempo fa mi pareva non mi costasse nessuna fatica, mentre ora mi sembra tante volte uno sforzo oltre le mie capacità, e che la pigrizia tante volte abbia la meglio su di me. Un po' la sensazione è quella di aver corso fino al muro, e ora ci vuole tutta la determinazione di cui sono capace per rimettermi in piedi a correre. Ci vuole lavoro che non da i suoi risultati in un giorno, ci vuole la voglia di vedere una persona cambiata e cresciuta allo specchio, ci vuole la voglia di dimostrare qualcosa e di non arrendersi di fronte alle difficoltà (come mi sono sentito lui nella scena in cui si impone di svegliarsi alle sei di mattina e quando si alza sono già le otto). Ci vuole anche la capacità di correre: "Go on then, run!" - "Isn't there some kind of...like...special technique?" - "Well, yeah...you put one leg in front of the other over and over again really really fast!". E soprattutto, ci vuole un grasso indiano con una spatola a fare da assistant coach. Run, fat boy, fuckin' run!

"You don't think I'm gonna finish, do you?"
"No, I don't."
"Why not?"
"'cause it's really hard, Dennis, and it requires a couple of things that, forgive me, but you don't seem to possess..."
"I happen to have a nice pair of running shoes, now thank you very much!"

***

Tra le canzoni della colonna sonora del consigliatissimo Run, Fatboy, Run! (consigliatissimo come tutti gli altri film e serie televisive che contengano o siano lontanamente correlate a Simon Pegg) c'è anche una delle canzoni dei Kaiser Chiefs che preferisco, Everyday I Love You Less And Less. Ci sta, in questo periodo, un po' perchè sto lavorando sodo a uno speciale sulla Coppa del Mondo, e il gruppo prende il nome dai Kaizer Chiefs, la squadra di calcio di Soweto, la township di Johannesburg, e un po' perchè il titolo esprime bene il sentimento di insoddisfazione verso se stessi che sto affrontando. Dedicata a tutti coloro che corrono per sensibilizzare la gente verso la disfunzione erettile.


Thursday, 6 May 2010

Home is where your heart is...


25 aprile, è appena finita la partita. Lei era lì, mi guardava da bordo campo. Due anni da un giorno speciale fatto di Tiramisù, Firenze, tramonti e nutrie, gelati, emozione, paura e un bacio. 25 aprile come il giorno della partita raccontata da Paolini, in uno spettacolo sempre capace di farmi battere il cuore e bruciare gli occhi. E Lei per la prima volta mi vede scendere in campo con quella maglia nuova, con due calzettoni uguali. Chi gà vinto? Noi, Trevisin, 42-21. Che giorno è? 25 aprile. La mia prima vittoria di fronte ai Suoi occhi. La mia prima vittoria con quella maglia nuova. Io spossato, il ginocchio, il tendine del polpaccio, non c'è nulla che vada bene quando entro in campo con la maglia numero 18. Il caldo, e io sragiono e son già a corto di fiato. E sono nervoso, quasi bloccato: non ho quasi chiuso occhio la notte, mi son svegliato presto per andarLa a prendere all'aeroporto, non ho mangiato come avrei voluto e non ho smesso di tremare un attimo. L'unica mezz'ora di sonno sereno l'ho fatta sul divano-letto, con Lei tra le mie zampe. Home is where your heart is...

In macchina, mentre andiamo al campo, è un momento che avevo immaginato spesso, chiedendomi come avrebbe reagito lei a vedere un matto che maltratta il volante e grida a scuarciagola, e si tende di brividi all'inno gallese o a Cochise degli Audioslave sparate ad alto volume. La chiamata dell'allenatore mentre imbocco l'uscita della Milano-Meda, risponde lei. "La partita è stata anticipata di un'ora". E se ne va anche quell'attimo di rilassamento pre-partita nel parcheggio che serve a star tutti un po' più tranquilli. Guido lo stretching, guido il riscaldamento della mischia. Respiriamo insieme, dopo aver fatto un po' di pick'n'go, a un attimo dal fischio dell'arbitro. Respiriamo insieme perchè è importante che una mischia spinga dalla stessa parte, utilizzi la componente maggiore delle proprie forze per spingere, sia come un uomo solo. Respiri all'unisono. Mi ricorda sempre come respiravamo all'unisono a Tradate a inizio della scorsa stagione. Sono io a dare il ritmo. "Respirare è il primo atto di libertà" diceva un proverbio cinese che citava sempre Enz Off. Home is where your heart is...

Mi ricordo però quant'è bella la sensazione di tenere in mano la palla ovale, quanta forza ti da avanzare a testa bassa mentre gli avversari cercano di abbatterti. Mi ricordo anche cosa mi faceva giocare con più forza e determinazione: la voglia di fare meta, il bisogno di essere vicino al pallone, di avere la possibilità di riceverlo...come mai quasi scappavo quest'anno? Vicino alla meta ci arrivo anche un paio di volte, nel groviglio della mischia. Gigi non la scarica in tempo, Sequoia invece va a farla lui di prepotenza, e in quella maul troppo disordinata in area di meta non riesco a farla uscire in tempo dal cespuglio di mani. "Billie, quanto ne hai ancora?". Sono distrutto, ho paura di fare più casini che altro, penso sia giusto che qualcuno prenda il mio posto. Non ancora però: "Cinque minuti, Mario", gli faccio segno. E proprio a quattro minuti e cinquantanove Fuser sta male, e viene sostituito al posto mio: devo tirare ancora quella decina di minuti che ci separano dall'80'. E' dura, loro si rifanno sotto, io ho paura che perderò ancora. Chiedo all'arbitro quanto manca, ormai allo stremo. E al fischio finale scoppio in lacrime. Non mi succedeva da un anno, da quando ero da quell'altra parte. Riconosco la sensazione di piangere senza riuscire a fermarmi a fine partita. E vado a placcare Silvia. E non vorrei uscire dal campo. Mi siedo sulla panchina con lei, e lei mi dice di non fare lo scemo, di andare a festeggiare con gli altri. E Marietto, l'allenatore, mi dice che ci ho messo le palle. Mi sento a casa. Home is where your heart is...

E penso ai dubbi che mi stanno attanagliando, al desiderio che ho sentito di tornare sui miei passi. Mi accorgo di quanto mi senta emotivamente instabile. E' difficile capire da che parte vuoi stare, alle volte. Sembra una cosa automatica, ma non è così. Orso mi disse che in genere il cuore ha sempre ragione...e se il cuore è indeciso e la razionalità non ti da segnali decisivi, cosa combini? Forse è la paura di non riuscire a dare quel che voglio nel rugby, forse una sensazione di distanza dovuta al fatto che li conosco da meno tempo, che non ho quel rapporto totale che avevo con gli altri, che non c'è una sede a farci da seconda casa. Famiglia e amici, è il parallelo che viene più naturale. Mi ha fatto piacere se non altro sentire dalla "famiglia" che le porte rimangono sempre aperte, nonostante quanto successo, e mi ha fatto piacere ricordare e rendermi conto dei motivi per cui l'ho sempre considerata una famiglia. Home is where your heart is...

Allo stesso tempo c'è una squadra che mi ha accolto e che, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, ha vissuto comunque con me. I colori, in fondo, sono gli stessi, e son gli stessi del tuo cuore gialloblù. E' la passione che è cambiata, o forse la difficoltà di guardare dentro se stessi e capirci qualcosa. Capire chi veramente si è. Pat Sanderson, il capitano dei Worcester Warriors, ha detto: "We will learn more from relegation than we will in any other way. It's when you are at your lowest that you find out the most about yourself". In questa stagione forse ero al mio lowest, e forse è quello che mi deve far capire qualcosa riguardo a me stesso. Credo mi stia facendo scoprire tanto, ma credo che sia difficile da riordinare, analizzare e capire. Ci metterà un po' questa catarsi. Mi sta dicendo che ho bisogno di un ambiente particolare per esprimermi? O mi sta dando i mezzi con cui riuscirò a esprimermi anche in un nuovo ambiente? E qual'è il mio obbiettivo? Quest'anno sono stato anonimo, ho provato più incertezze e paure che passione, nel rugby. Ed è quello che io non sono, o non sono stato finora e non mi piace essere. Devo ritrovare proprio quel me stesso, quello che darebbe di tutto per poter tenere in mano una palla ovale. Home is where your heart is...

Poi c'è la terza incognita, che è la voglia di partire. Sto partendo attraverso i libri, da un po' a questa parte, cercando di volare nel Caucaso, in Jugoslavia, a Israele con la mente. Con la voglia di partire veramente, scoprire nuovi posti, nuove storie, cambiare la routine inconcludente di questo periodo. Provare a giocare a rugby in una lingua diversa, perchè no? In fondo ogni volta che si profila una benchè minima possibilità di partire la prima cosa che faccio è vedere se c'è una squadra di rugby. E la seconda è sperare che vesta il gialloblù. Belgio, Svezia, Baltico, Jugoslavia...partire. Voglia di una nuova casa, di un posto in cui costruire un nuovo me. Anche se ho visto che è difficile, anche solo ovalmente, e quanto sia dura costruirsi la fiducia in nuovi sostegni. Home is where your heart is...

"Io non ho radici, la mia radice sei tu", mi ha scritto una volta. Stanotte, dopo aver tanto letto il libro che tanto L'ha appassionata e aver passeggiato per le vie di Tel Aviv e Gerusalemme e per il campo profughi di Al Amari in compagnia dei personaggi che mi voleva far conoscere, mi son svegliato di soprassalto. Certo, la scomodità e il dolore di dormire con una spalla insaccata. Ma anche la voglia che sul divano-letto ci fosse Lei, a tranquillizzarmi e farmi poggiare la testa sul Suo petto per carezzarla. La sensazione che Lei dovesse essere lì con me, e che lo fosse. Home is where your heart is...

***

La frase del titolo viene da Home degli olandesi Heideroosjes, ma benchè quella frase sia rintronata nella mia testa diverse volte in queste settimane, e rintroni molteplicemente per il post, ho cercato un'altra canzone che parlasse di "casa", e di sentirsi un po' lontani. L'ho sempre considerata una canzone di speranza: siamo a meno di un miglio da casa, ci siamo quasi. Mi fa venire in mente immagini di fango, we are within ten inches of the try-line. Anche se dopo ogni linea di meta c'è un nuovo calcio d'inizio, e nel rugby come nella vita (come direbbe Paolini), non ci si può mai permettere di abbassare la guardia: life is a thankless struggle. Lo sto imparando pian piano, e la partita contro il Rhaudum è stata la dimostrazione. Dopo quattro mete non puoi sentirti arrivato, devi continuare e andare avanti, non importa quanto vantaggio tu abbia. Però la sensazione di esserci quasi, il raccogliere le ultime forze quando si è allo stremo, è una delle più grandi emozioni che ci vengono concesse, credo. Quindi la scelta è ricaduta su Within a Mile of Home, dall'omonimo disco dei Flogging Molly.

Sunday, 14 March 2010

π = 3,14

La tierra giró para acercarnos,
giró sobre sí misma y en nosotros,
hasta juntarnos por fin en este sueño,
como fue escrito en el Simposio.
(Eugenio Montejo, Venezuela, 1938)

π

Il 14 marzo è il giorno del pigreco, come sottolinea anche Google. Il 14 marzo è un giorno particolare, speciale, per me. In cui i cerchi che erano andati disegnandosi si sono in qualche modo chiusi, con una maestria degna di Giotto. Ci si erano messe delusioni molteplici, sbronze salingeriane, confusione mentale e di vita che non credo avessero avuto pari prima. Fino a che qualcuno non mi prese di peso e mi costrinse a mettermi su quei binari che avrebbero rimesso la mia vita in carreggiata. Ormai stanco e stufo di cercare, di soffrire, rassegnato. Eppure sceso dal treno alla Stazione Tiburtina, I saw a pair of brown eyes that was looking for me. Fu un weekend di gioia e di qualche preoccupazione, e di scoperta, soprattutto. Al ritorno mi portai dietro una sensazione strana, ma positiva, something strange, but harmless.

Un anno fa celebrammo insieme, in una Stazione Tiburtina deserta, in cui c'eravamo soltanto io e Lei. Lacrime calde, per entrambi, lacrime di felicità, e preghiere al cielo di tenerci uniti come aveva fatto fino a quel momento. Tiburtina la stan rifacendo nuova e, nei miei viaggi a Roma, l'ho vista pian piano crollare. Prima l'orologio fissato sulla mezzanotte, poi i cantieri, la stazione vuota, poi le macerie. Oggi, 14 marzo, san Pigreco martire, a Tiburtina facevano brillare una bomba rimasta inesplosa dalla Seconda Guerra Mondiale. E mi fa ripensare a quello che bolliva dentro a due cuori e che è esploso il 14 marzo di due anni prima, con una miccia lunga 600 km, innescatasi a Milano Centrale. Stazioni, quante, nella nostra storia, da Centrale a Tiburtina, da SMN a Siena, Verona, Latina, Termini, Avezzano, Ciampino...

Hanno evacuato quattromila persone per far brillare l'ordigno bellico a Tiburtina. Noi, nel nostro piccolo, abbiamo mosso due squadre di rugby, una combriccola di amici, un tavolo della cucina, un tiramisù, salsicce, arrosticini e pizze, tifosi scozzesi, birre, amari e limoncelli, parchimetri, parcometri, sanpietrini, i James e i Beatles, i Clash e i Ramones, una sciarpa di Italia-Scozia, una Trabant giocattolo, un profumo al kiwi, il Tevere, il Colosseo e persino Spud. La tierra giró para acercarnos...

***

Visto che la terra continua da due anni a girare per portarci vicino, fisicamente o nella mente, oggi il Suo lettore mp3 ha fatto partire questa canzone, che abbiamo sentito entrambi esattamente due anni fa per la prima volta. La prima sera passata insieme, in un pub, ognuno preoccupato del fatto che l'altro potesse non essere interessato. Poco dopo ci trovammo a parlare, e decidemmo che noi, noi volevamo fare quello che ci pareva, e ci andava di andare al Colosseo. Cosa che ci diede un primo indizio di quello che era in procinto di succedere. Non sapevo come si intitolava quella canzone, dovetti chiedere a uno scozzese il nome del gruppo. Erano i James, e la canzone, scoprii più tardi, si chiamava Getting Away With It (All Messed Up).


Saturday, 13 March 2010

Thanklessly struggling

Life just isn't like the movies, is it? You know, we're constantly led to believe in resolution, in the reestablishment of the ideal status quo, and this is just not true. Happy endings are a myth designed to make us feel better about the fact that life is just a thankless struggle.
(Spaced - puntata 7 della prima serie, Ends)

Morning. Fuckin' phone awakes me. "We've got a contract for you to sign". Fuckin' aye! Entusiasmo, eccitazione, ansia, emozione, mentre apro il contratto allegato all'email. Un'eccitazione violentemente effimera, destinata a spegnersi ben presto nell'impatto con il muro della realtà. I numeri tendono sempre a fare male. No, non per forza, ma questo mi ha fatto male. Otto lordi, una cifra capace di spegnere l'entusiasmo di chi con un entusiasmo probabilmente esagerato si era avvicinato a questa avventura. Certo, lo sapevo che quello in cui mi sono buttato è un mondo di sfruttamento indecente, ma perfino le mie più fosche previsioni non erano riuscite ad arrivare a tanto. A essere ottimisti lo si piglia in quel posto. Rabbia e delusione, a rimuginare su un colloquio fatto, sulla parola entusiasmo. E pensare che se il lavoro dei giovani è avere entusiasmo, quello dei vecchi è farlo perdere ai giovani.

Poi mi riprendo, penso ad altre cose, impegno la giornata. La sera, capitano Teo trova le parole giuste: "Dai, hai il rugby, gli amici...queste cose servono a tirarti su". E mi tira su. Poi c'è Lei, come sempre, a coccolare le mie ferite, a darmi iniezioni di fiducia, a ripompare aria nelle mie gomme. A farmi sognare fughe in altri posti, un'altra vita, un paese che non sia sputtanato come questo.

Poi, l'altro schiaffo. Särskild behörighet saknas: requisiti specifici non soddisfatti. Uno sgambetto a un sogno di fuga, di libertà, di cambiamento, di un nuovo mondo. Pian piano torna l'idea che il suolo dal quale sono cresciuto è crudele e ormai infertile, e che sia il caso di mettere le ali e smetterla di inciampare e finire col muso a terra. Mi lascio cullare dai ricordi dolci della bufera di neve che ha colpito Siena pochi giorni fa, da quelle idee che mi facevano stare così al caldo. A Stazione Tiburtina (un posto dannatamente importante, in questo periodo dell'anno) hanno trovato una bomba della Seconda Guerra Mondiale, domani la faranno brillare, pare. Un'ordigno vecchio almeno 65 anni, 500 libbre di voglia di esplodere. Ecco, quanto tempo può restare quiescente un fuoco prima di esplodere, travolgere e sconvolgere tutto? Feel like a tickin' timebomb, ready to go off...where am I going?

***

Inizialmente volevo parlare solo di sfruttamento, e la canzone che avevo prescelto per questo post era Ten Million Slaves di Otis Taylor. Poi è arrivato l'altro schiaffo. E la malinconia dei vecchi Counting Crows, quando ancora non si erano sputtanati ovviamente, era proprio quello che mi serviva. E ho scelto Angels of the Silences, che in teoria avrebbe dovuto aprire questo mio blog quando l'ho pensato nella mia testa. Forse un giorno dirò a questa terra: Well, I guess you left me with some feathers in my hand, did it make it any easier to leave me where I stand?

Monday, 1 March 2010

Just sorry, mate...


A volte mi sembra di essere una brutta persona. Inadeguata, pigra, noncurante, cagacazzo, che chiede molto e non da nulla. Il guaio è che io ero convinto, anzi, convintissimo di essere una bella persona: uno che sapeva ascoltare, che avrebbe sempre avuto una buona parola per ognuno, che sarebbe riuscito a stare vicino ai suoi amici costi quel che costi. Ho cenato con alcune persone che facevan parte del mio mondo: Fede e Paolino, i miei ex-capitani, Dervo e Bruno, i miei ex-allenatori, Albertone, un vecchio compagno di squadra, e Vale, una ragazza della femminile con all'attivo una convocazione con la nazionale, che sta assieme a una persona con cui avevo un bel rapporto. Anzi, qualcosa di più, visto che noi due, e un'altra persona che ho citato in un altro intervento, ci sentivamo i tre fratelli tra i fratelli, brothers among brothers. Fratelli al quadrato. Sempre pronti a incoraggiarci l'un l'altro, sempre ultimi a tirar tardi in sede, indivisibili, affiatati.

Poi venne una situazione personale che squassò diversi equilibri, e poi il crollo di identità di una squadra, che ci catapultò lontani. Tre maglie diverse, non più la stessa. E parole non dette, e comportamenti incuranti, e parole dette senza pensare. Il grande gelo. Parlando di quanto successo, è venuto fuori che alla fine il santarellino Billie un po' si è comportato, senza nemmeno accorgersi, da stronzo. Tornando in macchina da Tradate (quanto tempo che non faccio più quella strada regolarmente) ci ho rimuginato su parecchio, sentendomi uno schifo d'uomo. Potrei nascondermi dietro a mille cose, dicendo che io stavo cercando di mettere equilibrio in una situazione difficile, o criticando comunque la reazione esagerata. Non sarebbe giusto. Mi sento una merda, e vorrei solo chiedere scusa. Per i chiarimenti su questo o quell'altro avvenimento, ci sarà, forse, tempo più avanti. So solo che ora capisco il raffreddamento di certi rapporti, e solo ora mi rendo conto che ho una responsabilità di gran lunga maggiore a quella che ho mai avuto il coraggio di ammettere.

Per quello, voglio solo chiedere scusa. Scusa per essermi comportato con noncuranza, senza nemmeno accorgermi che stavo ferendo una persona e che stavo inavvertitamente ponendo una graduatoria di valore a due amicizie. Scusa per essere stato così duro, per aver criticato senza prima rendermi conto della mia parte di torto, per non aver saputo perdonare certi comportamenti. Per essermi lasciato andare di fronte a una situazione di difficoltà per la nostra amicizia. Per non aver fatto nulla, per aver permesso al gelo di prendere piede. Per essermi arrogato la presunzione di giudicare, quando ero in fallo. Because I deserted you, my brother in arms.

***

Non poteva che essere questa la canzone di questo post, per l'ovvio rimando al nome della persona con cui mi voglio scusare. Get Down Moses di Joe Strummer & the Mescaleros, dal disco Streetcore. Dovevamo conquistare le Mura di Gerico, amico mio, e solo ora la verità si sta cristallizzando, come un gioiello nella roccia (We gotta take the Walls of Jericoh, goin' to the very top, where the truth crystallizes like jewels in the rock)


Tuesday, 9 February 2010

The Swiss dinosaurs and their civic sense

Fotografia scattata a Vicosoprano, frazione di Bregaglia, ridente comune della Valbregaglia, nel Canton Grigioni, appena passato il confine dopo Chiavenna. Mi da un senso di pace con me stesso. Un po' come le mie nuove ciabatte da vecchio, il cui acquisto è stato concepito proprio in quei giorni. Evviva i capodanni all'estero, viva la follia degli svizzeri, viva i pizzoccheri alla chiavennasca e la grappa alla mela verde, viva le ciabatte da vecchio e viva il Dinosauro e la Marmotta!


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Visto che questo post parla di dinosauri, la scelta è praticamente obbligata: I'm a Little Dinosaur di Jonathan Richman & the Modern Lovers, in italiano resa dai Potage con la toccante cover Sono un piccolo dinosauro. Insomma, qualcosa che ci da un senso di enormous well-being. Come le ciabatte da vecchio, la marmotta, e il piccolo dinosauro che schiaccia le lattine.

Monday, 8 February 2010

Seizing dreams

Good times for a change. See, the luck I've had could make a good man turn bad...so please, please, please, let me, let me, let me get what I want this time.
Haven't had a dream in a long time. See, the life I've had could make a good man bad...so, for once in my life, let me get what I want: Lord knows, it would be the first time.
Sabato pomeriggio. Preparo tutto il materiale: macchina fotografica alla cintura, il mio borsello con dentro le due agendine, penne e registratore vocale, poi la borsa del portatile. Carico in macchina e mi dirigo da Jenkins: inizia il Sei Nazioni, e me lo gusto tra amici. Intanto la notizia che la partita è rinviata, di nuovo. Finita la partita, giusto il tempo di fare altre due chiacchere, poi salto in macchina.

La strada non è la solita che faccio per andare a Como, ma un'altra, meno trafficata, che ho imparato ad apprezzare negli ultimi tempi: a Fino Mornasco si prende la salita che porta a Casnate con Bernate, passando per i boschi di Costa. Strada stretta, in salita e con qualche curva. Di notte poco illuminata, di giorno molto piacevole. Dopo aver passato il centro di Casnate con Bernate, si va in direzione del Bassone, il carcere, e si fiancheggia il termovalorizzatore, passando parallelamente a Grandate, alla strada di Prato Pagano. Si passa per un passaggio a livello con la croce di Sant'Andrea (ignoro se in disuso, visto che da una parte i binari entrano in un cancello che ho sempre visto chiuso) e di fianco alla stazione di Como Camerlata, poi si sale sul ponte sulla ferrovia, dove c'è la Motorizzazione, si gira a sinistra e ci si dirige nella zona dell'Acquanera. Più in là c'è l'Oltrecolle, e Como Lora. Sarà stato per una trasmissione di viaggi che una volta ho sentito alla radio guidando per quei posti, ma su quella strada mi vien sempre da pensare a Georgia, Kazakistan e Mongolia. Un viaggio che magari un giorno farò, chissà. Arrivati all'Acquanera, in piazza Atleti Azzurri d'Italia, proprio sulla rotonda del Campo CONI, c'è la piscina.

Strada stupenda, innevata, l'immagine della purezza. Nemmeno i fumi del termovalorizzatore riuscivano a rovinare la poesia. Nè la mia emozione, che cresce ad ogni curva, ad ogni rotonda, ad ogni punto di riferimento della mia topografia personale. Perchè è la prima partita che seguo per lavoro: la squadra di pallanuoto di Como che incontra il Quinto. Entro nella piscina, salgo le scale, varco la porta del bar e ordino un caffè, per concentrarmi. Metto in tasca una bustina di zucchero, per tenerla da parte, poi esco, trovo un seggiolino in prima fila, tiro fuori i miei fogli dalla borsa e scatto una foto. Saluto l'addetto stampa, lui mi lascia copiare le formazioni dal suo foglio. Poi, a causa di una combinazione fortuita, ottengo la possibilità di scavalcare la balaustra e rimanere nel perimetro della piscina, seduto su un gradino con i miei fogli statistiche in braccio. E, nonostante la visibilità sul piano della piscina non sia delle migliori, è bello vedere l'azione svolgersi a pochi metri di fronte al mio naso, vedere gli schizzi arrivare quasi ai miei piedi, e poi fare il giro della piscina fino al tavolo dei giudici per ritirare il mio documento.

Finita la partita, dopo aver chiesto un commento all'allenatore e averlo ascoltato seduto a gambe penzoloni sulla balaustra, è una corsa contro il tempo per scrivere l'articolo e trovare una connessione per inviarlo in redazione. L'addetto stampa mi salva la vita, facendomi sfruttare il suo ufficio. Alle 7:25 l'articolo è inviato, mentre esco dal negozio dell'addetto stampa, squilla il telefono, è il mio caporedattore. "Arrivato, va benissimo. Dalla prossima volta vediamo anche di organizzarci meglio". Poi, passano le ore, condite anche da un incontro fortuito con l'allenatore, tra la stazione di Como Lago e la funicolare. Il giorno dopo, l'articolo è lì, con la mia firma, ad attestare che ho battuto la deadline e che ho voluto cercare di afferrare un sogno. Per favore, lasciami afferrare quello che voglio, stavolta...

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Ad accompagnarmi mentre guidavo per la strada di Casnate, prima che il mio trasmettitore decidesse di soccombere alle onde radio del capoluogo comasco e di non ritrasmettere quelle del mio lettore mp3, c'era la voce di Gavin Clark. Non ricordo che canzone fosse, ma ha contribuito certamente all'emozione. Quando ho pensato a quale canzone abbinare al post di oggi ero sicuro di una sola cosa: che la voce dovesse essere la sua. Poi ho pensato al testo di Please, Please, Please, Let Me Get What I Want degli Smiths e ho ripescato, direttamente dalla colonna sonora di This Is England, la versione che lui cantava con il suo gruppo, i Clayhill.

Tuesday, 2 February 2010

Dollar a day

Well I've been working in the goddam sun
with just for a dollar a day
Been workin' for a dollar a day
I've been workin' for a dollar a day
I problemi sono iniziati a gennaio 2008. Una busta paga da 5,00 € poteva essere un'avvisaglia. Dopotutto, però, il lavoro continuava. A dicembre 2008 la busta paga era di 2,00 € netti...mica male, no? A febbraio 2009 mi sono laureato e proprio di lavoro non ce n'era. Qualche ora qua e là, pochi soldi, e a giugno l'ultimo giorno lavorativo al Museo. E il mese dopo il rinnovo del contratto. Sei mesi, prestazioni occasionali. In sei mesi, non ho lavorato nemmeno un'ora. E poi, quel master che mi aveva tanto entusiasmato e che invece avevo deciso di non frequentare, deluso e abbattuto dopo il colloquio. E quell'altro, importante, per cui non sono stato ammesso nemmeno alle selezioni.

In compenso ho fatto lo scrutatore alle elezioni, a luglio ho fatto un corso per disoccupati e, qualche mese dopo, ho avuto modo di intraprendere una mission lavorativa relativa al corso stesso. Contratto della durata di un giorno. E la cosa che fa più ridere è che offrendomi un contratto da un giorno mi hanno costretto a firmare un foglio con il codice etico della società, che diceva che loro rispettavano il lavoro e non avrebbero mai costretto nessuno a condizioni lavorative degradanti o umilianti. Diciamo che forse il mio concetto di degradante e umiliante è un pelo meno stretto del loro. Fattostà che quelli lì mi hanno pure pagato la tredicesima e la quattordicesima e ferie e malattie, per un giorno di lavoro. Alla fine manco ci sputi sopra. Ho fatto persino un concorso per sostituire una maternità in anagrafe. C'erano sessanta persone, se ne aspettavano tre o quattro.

Un giorno, dopo tanta e tale crisi personale, e dopo aver portato alla follia le persone che cercavano di darmi quel colpo di pedivella per rifarmi sotto, ho deciso di mettermi a fare. Mandato e-mail, cercato master all'estero, cercato di evitare di limitarmi ai soliti annunci di lavoro. Alla fine una chiamata mi è arrivata da quelli, però sono intimamente convinto che sia dovuta a una specie di ricompensa karmica per aver deciso di non lasciarmi andare. Un colloquio rilassato, dove ho potuto parlare di quello che piace a me, dire quel che faccio e chi sono. Da cui sono uscito sorridendo, sentendo che era andato bene.

Certo, non è ancora definito niente, tranne che domani devo consegnare un articolo in pubblicazione per dopodomani. Però sto meglio, sono contento, ho voglia di fare. Quando al terzo colloquio, in terra lecchese, mi hanno proposto la pallanuoto, avrei accettato all'istante. Lo stimolo sembra essere tornato, anche se, come qualsiasi fuoco, bisogna mantenerlo in vita costanemente. Però mettermi in macchina per Bergamo per vedere una partita, e poi l'odore del cloro e la gentile e impetuosa chiaccherata con l'allenatore in mezzo all'aria di cloro della piscina dell'Acquanera, impostare un foglio statistiche per uno sport che conosco poco, chiedere consiglio a chi lo conosce un po' di più (con tanto di telefonata in Grecia, grazie Yiannis!), raccogliere informazioni e cominciare a seguire uno sport diverso dal mio, ma che mi affascina così tanto...beh, mi fa stare bene, cazzo!

***

Ryan Bingham me l'ha fatto ascoltare Andy Beast, il mio chitarrista, e questa canzone me la ricordo da una delle ultime volte che sono andato al Museo. Anche se I've been working in the goddam museum with just for two euros a month, been working for two euros a month, non posso fare a meno di collegarla a queste questioni. In questi giorni ce l'ho avuta parecchio in testa, e ce l'avevo in testa anche quando ho imboccato il corridoio buio per uscire dalla piscina, con i copriscarpe di plastica blu che facevano una sezione ritmica di sci-cìk e sci-ciàk. Dal disco Mescalito, questa è Dollar a Day.

Sunday, 31 January 2010

Broken Stones

Like pebbles on a beach
Kicked around, displaced by feet
Ooh, like broken stones...
Quanti anni fa...due motorini, il mio Vecchio Lepre che, ahilui e ahimè, è stato rivenduto e conseguentemente rottamato. Che tristezza. Comunque, senza riperderci: due motorini, io e lui, in un posto insignificante, ma in qualche modo significativo per la mia vita, davanti a casa di un altro mio amico (il primo che mi ricordi nella mia vita) e a forse venti metri da casa mia. Sera, stelle, qualche birra in corpo e qualche discorso sui massimi sistemi, di quelli che vengono meglio quando si è amici per la pelle e si hanno 17-18 anni.

I caschi appoggiati, lui fuma, e dice: "Vedi, io sento i miei genitori che raccontano dei loro amici, delle cose che facevano da giovani, anche le pazzie come noi, insomma...e quando invitano qualche amico a casa non è mai uno di quegli amici, è sempre un collega di lavoro, o comunque qualcuno che hanno conosciuto più tardi...e gli ho chiesto perchè. E loro hanno detto: 'Beh, le strade si dividono, quando si diventa grandi, le cose si fanno più serie, e tante volte ci si perde di vista'. E allora mi sono detto che non voglio che succeda così, che io voglio che i miei figli conoscano voi, che siate i loro zii...lo zio Billie, lo zio Naska, lo zio Miccia, lo zio Buse...".

Quella notte di estate, con le stelle in cielo, i grilli e due poco più che adolescenti amici per la pelle che discutevano seduti sui loro motorini, non me la scorderò mai e poi mai. E quando mi disse questa cosa, io ero d'accordo con lui, e convinto che non avremmo mai e poi mai permesso che le nostre strade si allontanassero.

Crescere vuol dire anche trovarsi ad affrontare una serie di cose che mai avresti pensato potessero toccarti. Quelle cose che vedi nei tuoi genitori, nella gente più grande, che tutti ti giurano che facciano parte della crescita: "No, non a me, non può succedermi". Ne sei sicuro, lo giuri e spergiuri, in quella assurda e fragile sicurezza di sè che è la parte più importante dell'essere adolescenti.

Ero sicuro, per esempio, che quell'immagine con cui ho aperto il post sarebbe stata il mio tatuaggio indelebile (adesso non credo che lo farei neanche mai, un tatuaggio), simbolo della mitica Milkbar Gang, la compagnia che faceva capo alla mia vecchia band, i Korova Milkbar. Il simbolo l'avevo disegnato un sabato sera di fronte ad alcune birre rosse. United we stand, divided we fall, raise your glass and pay honour to the Milkbar Gang! E ti trovi a vedere che quella gente, ogni tanto la vedi, ogni tanto no, e cominciano a esser più frequenti le volte che la incontri per caso che quelle in cui ci esci insieme.

Però, ti dici, il nucleo, i veri amici, i veri fratelli, restano. A volte si: nonostante non mi sia mai confidato più di tanto con lui, nè lui con me, Naska è mio amico da quando io ho memoria del mondo. Da quando a cinque anni giocavamo insieme e litigavamo sedici volte in un pomeriggio. Da quando abbiamo fondato la nostra prima band. Da quando siamo andati in vacanza insieme in motorino. Da quando siamo andati a giocare insieme a rugby la prima volta. Da quando invece siamo andati in camper a Monaco per Capodanno. Da quando siamo tornati a suonare insieme. Nella mia vita, nonostante ci siamo persi di vista qualche volta, Naska c'è sempre stato.

Lui, invece, no. Conosciuto in quell'età in cui si sviluppano i rapporti più profondi e significativi, diventato il mio fratello, abbiamo temprato (o forse, sorge il dubbio, indebolito) la forza della nostra amicizia con momenti in cui l'abbiamo messa entrambi a repentaglio. Quante sbronze a sorreggerci a vicenda, quante delusioni, sempre a sorreggerci a vicenda, quanti cazzo di casini abbiamo combinato (più lui che io), quante cose abbiamo fatto insieme. A Monaco, con lui, ho vagato nottetempo a piedi, persa l'ultima metro, i nostri amici, e a 4 o 5 km dal camper. Due rugbisti ubriachi per le vie di Monaco alle 2 di notte con -10°C, cantando a scuarciagola per scaldarci...e l'abbiamo pure ritrovato, il camper. Insomma, culo e camicia, capaci di mandarci affanculo e di perdonarci, convinti di un legame che non si può recidere. Poi un giorno ti accorgi che siamo come i ciottoli di una spiaggia. Una delle cose che ci hanno avvicinato, ironia della sorte, da una pedata alla spiaggia e fa volare i due ciottoli in direzioni diverse.

Ripensarci mi ha fatto riflettere sull'imprevedibilità delle strade che prendiamo, sulla mia abilità di conservare rapporti (mi rendo conto che forse non sono una bravissima persona a gestire gli allontanamenti), sulla natura stessa della nostra amicizia. E su com'ero in quegli anni, in cui sotto il mio culo il più delle volte c'era uno scooter, in cui mi cibavo costantemente di musica e di birra, in cui combinavo più cazzate di quanto oggi mi sembri possibile. Di quando davo un'importanza al fatto di avere una persona da chiamare "migliore amico". Il mio migliore amico era lui, Yusuf Barbarossa (questo ha una sua storia, come un sacco di cose della nostra amicizia, e forse è giusto che la capiamo solo noi due, e pochi altri). Lui:
Il secondogenito Ramone, Yusuf Barbarossa, accanito disertore di lezioni scolastiche, ancora in prima nonostante i suoi diciott'anni, appare in carne, ossa e pancetta alcoolica, avvolto nell'onnipresente felpa dei Ramones. Già, signore, la felpa dei Ramones del Barbarossa!
Non credo, nè voglio credere, che queste nostre strade, che si sono divise in maniera così triste, non si incroceranno di nuovo. Non so nemmeno se, incrociandoci nuovamente, il rapporto potrà mai essere lo stesso. Non so giungere a conclusioni. Ripenso solo a quella sera, e a come era bello sentirsi cani randagi che ululavano alla luna.
As another piece shatters,
another little bit gets lost...
and what else really matters
at such a cost?
***

Quasi quasi sono stato tentato di cambiare la canzone di oggi, quando ho scritto dell'ululato alla luna, e di mettere Howling at the Moon (Sha-la-la) dei Ramones. Avrebbe avuto un senso, anche contanto quanto contavano i Ramones per noi. Però questo post è stato concepito guidando di ritorno da Bergamo, in macchina, e volutamente con l'accompagnamento di questa canzone tratta dal disco Stanley Road di Paul Weller. Canzone con un'atmosfera giustamente malinconica, dalla quale ho tratto alcune delle citazioni e il titolo del post, e che parla proprio di ciottoli di una spiaggia scaraventati lontani dai piedi. Pietre rotte, Broken Stones.

Saturday, 30 January 2010

Exiles

Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di transmigratori
Exiles. Esuli, esiliati, lontani. Per scelta o per necessità. Come le persone con cui Lei vuole lavorare, che Le danno energia, le cui storie sanno infiammare il di Lei animo. Exiles un po' come Lei, che ha sempre più bisogno di potersi dedicare a quello che La infiamma, che La fa sognare, che Le da emozioni. A quello che vuole fare, e vuole imparare a fare bene. Spero di saperti sostenere, di saperti sempre stare vicino, di poter gioire con te dei tuoi traguardi.

Exiles. Gente che magari crede, o si rende conto, che il set del loro film è stagnante, che vivono in un paese che ormai non ha più nulla da dare, ricurvo com'è su se stesso. E allora sognano di partire, fanno progetti, cercano di trovare alternative e di trovare, soprattutto, il coraggio di recidere le pesanti catene che li aggrovigliano al suolo patrio. Exiles che magari si trovano anche sorpresi, e in cui the bitter soil they've grown out of cerca di riscattarsi, gli da un'altra opportunità. Chi vivrà, vedrà, ma gli Exiles dovrebbero rimanere forse un po' tali, nell'anima o forse, soprattutto, nella testa: non restringere mai le vedute, pensare che un modo, un'occasione, un luogo ci sarà sempre, da qualche parte. A chi è andato a vivere a Londra, Berlino, Parigi, Milano, Bologna, ma le paure non han fissa dimora, le vostre svolte son sogni di gloria.

Exiles. Come i London Irish. Vero Orsaccio? ;)

Exiles. Come i personaggi dell'ultimo film che ho visto, Ogni cosa è illuminata. Gente superiore. Ukrainskyj souveniryj!

Exiles. Come parte della squadra di pallanuoto ungherese che vinse l'oro alle Olimpiadi del 1956, poche settimane dopo la repressione sovietica della Rivoluzione Ungherese. Incontrarono in vasca proprio l'Unione Sovietica, e ne uscì una delle partite più sanguinose e famose della storia dello sport. Ne scrissi un articolo, che fu il mio primo approccio con la pallanuoto. Pare che non sia l'ultimo, e che questo sport possa giocare un qualche ruolo nella mia vita. Forse sono solo troppo entusiasta all'idea, e tutto si rivelerà un fuoco di paglia. Guess what? I don't give a fuck, voglio crederci!

Exiles. Come chi è andato via cercando di dimostrare qualcosa. E non è detto che ne esca vincente. Fiaccato da mille cose, sentendosi un livello più in basso rispetto a prima. Esilio personale che può rivelarsi amaro. Il segreto credo sia mantenere il fuoco dentro di sè acceso. Quello che ti porti dentro di te del posto che hai lasciato, quello che ti ha spinto a lasciarlo, quello che hai imparato dove sei approdato. La neve aiuta, i pali che sovrastano un campo innevato sono una vista impagabile. E anche sentirsi un po' Lupin in maul. Quando le luci si spengono e il campo immacolato si stende di fronte a te, ti verrebbe voglia di ricambiarti e rituffarti in campo. Peccato solo per il rinvio della giornata: sto a digiuno di rugby.

***

Exiles. Come i protagonisti di questa canzone, Shaktar Donetsk di Joe Strummer & the Mescaleros (dal disco Global a Go-go). Il titolo è il nome di una squadra di calcio ucraina (Lucarelli, d'you remember? O anche Крістіано Лукареллі), il protagonista è un macedone, arrivato a Londra sul retro di un camion. Attorno al suo collo c'è una sciarpa dello Shaktar Donetsk, portata al collo come fosse una bandiera di libertà, ereditata dal padre, uno degli esuli ucraini della Jugoslavia.



Exiles. E oggi, doppia razione musicale. Visto che parte di questo post parla ucraino, e visto che parla di Exiles, sarebbe stato un crimine non includere The Ukrainians alla playlist odierna. Gruppo inglese di discendenza ucraina, nati dalle ceneri degli ottimi Wedding Present, suonano una sorta di folk-punk ucraino (alla voce folk-punk ucraino, file anche i Gogol Bordello, il cui cantante Eugene Hütz, guardacaso, è anche uno dei protagonisti di Ogni Cosa è Illuminata. Egli è un ballerino superiore). Il loro disco dell'anno scorso si intitola Diaspora, come anche la canzone che vi propongo: una canzone sull'essere Exiles, o discendenti da Exiles.

Monday, 25 January 2010

LET ME IN, for fuck's sake!

Per cominciare in bellezza, da una pagina bianca, forse serve un po' di delusione, di amarezza. Qualcosa che ti brucia dentro. Iniziare da una pagina bianca, avevo deciso di farlo quest'estate, anche se avevo desiderato mantenere lo sfondo della pagina di quel colore gialloblù che sento, dopotutto, mio. Era una sfida con me stesso. Sono capace di affermarmi ripartendo da zero? E forse ho peccato, dando per scontato di esserne capace, o che fosse una passeggiata, una bazzecola. Nonostante il periodo non fosse dei migliori e la mia vita languisse in uno stato di immobilità che mi fiaccava non poco, delle mezze soddisfazioni ero anche riuscito a levarmele. E pian piano sono entrato sempre più a contatto con la mia nuova famiglia (pian piano sto cominciando a considerarla tale) e, purtroppo, a sentirmi sempre più lontano dall'altra. Forse è giusto così d'altronde. Comunque ho trovato nuovi compagni, nuovi amici, nuova gente a cui stringersi: prima di una partita, ogni volta che la partita, o la vita, ci costringe a ripartire da zero.

Zero, zero vittorie, suonava il nostro 2009. E un po' ultimo in classifica mi son sentito anch'io, nella mia vita. Privo di spunto, di passione, di fiducia nei miei mezzi. E' brutto sentirsi una persona "peggiore" di prima. Alle volte è solo un periodo di stanca, alle volte sono situazioni che noi diamo per scontato di saper gestire, e non è vero un cazzo. Son sempre stato sicuro di essere una persona buona, mentre ora mi sto trovando a fare i conti con tutti i miei difetti. Servono, d'altronde, anche le vangate in testa per riaprire gli occhi e non sedersi sugli allori.

Ieri iniziava il 2010. Un anno che ho deciso di iniziare da una pagina bianca. Buttandomi a capofitto nelle cose che credo di voler fare. E i frutti, dopotutto, hanno subito iniziato a piovere: un articolo da 18000 battute di cui sono fiero, un colloquio con un giornale importante, più serenità e fiducia in me stesso, nuove idee e nuove iniziative. E poi, una nuova stagione da affrontare. Un obbiettivo: tornare a essere il giocatore che credo di essere, mantenere, a meno di grossi imprevisti, il 100% delle presenze, riprendermi la maglia numero 6 che ho vestito a inizio stagione. E, ovviamente, vincere la mia prima partita con la nuova squadra, ça va sans dire...

Domenica: Seregno - Biancorossi Milano. Vecchie conoscenze, la seconda squadra dell'ASR, contro cui ho disputato la mia prima partita da titolare in campionato. Vecchie conoscenze, un seconda linea dei Diavoli Rossi, un derby che in qualche modo si ripete. Parto in panca. La partita è emozionante, Teo e Friuli, i nostri centri, ci danno quella marcia in più, ma i Biancorossi non ci lasciano decollare, restano con le fauci attaccate ai nostri garretti e, nel secondo tempo, si riportano pure in vantaggio. La squadra sembra stanca, io spero sia il mio momento, entrare, ridare un po' di carica, fare la mia parte. L'allenatore si gira. Guarda le riserve, guarda il campo. Lo vedo dai suoi occhi che non se la sente di fare cambi, che ha paura a spostare equilibri. E infatti non entrerò. La partita è ormai finita e capitano Teo, dai nostri 22, decide che no, non può andare a finire così, non possiamo perdere di due punti. E, non si sa bene da dove, tira fuori una cavalcata di 70 metri e va a schiacciare la meta della vittoria.

Mentre tutti festeggiano e cantano, io non mi sento un vincente. Forse è un po' egoistico, ma dopotutto non è con l'allenatore, o i miei compagni, che ce l'ho. E' con me stesso. Lei mi conforta, al telefono, faraway, so close, e io sfogo qualche lacrima. Poi, è doccia e terzo tempo. I miei compagni si rendono conto del muso lungo, mi fanno chiaccherare, sfogare un po', mi canzonano ("ti imbalsamiamo in panchina, si vede che porti sfiga!"). Fuser mi offre una birra, e Vecchio un whiskey (Old Turkey). E poi Betta ed Eros mi fanno cantare: Safe European Home, I Fought The Law, Sunnyside of the Street, The Gauntlet. E torno a sorridere. In compagnia di alcuni di loro ho iniziato il nuovo anno, la mia pagina bianca. E ora sono lì, assieme a me, mi tiran su, mi fan ridere, mi fan stare meglio, mi fan sentire che per loro sono importante. E comincio a esser felice anch'io della vittoria. E ho voglia di esserci, settimana prossima, e di essere in campo per ottenerne un'altra, di fare esplodere quello che mi sento dentro. Got a fuckin' wolf inside me, time to unleash it!

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La canzone che ho scelto per iniziare questo nuovo blog è perfetta per la situazione, credo: cala il silenzio, come una nuova pagina bianca da riempire, prima di esplodere, all'improvviso, in tutta la sua energia e potenza! Direttamente da Berlino i Beatsteaks, con Let Me In...